La Serva Padrona ovvero Il Pomo della Discordia

Un Galileo, un Cavalieri, un Tasso,
un Ariosto, un Palladio, un Tiziano,
un Raffaello, persino un Pergolesi e un Corelli,
vivono e vivranno nomi cari e venerati all’Italia.
Pietro Verri, Discorso sulla felicità

 

Parigi, 2 agosto 1752. Un giorno memorabile, anche se nessuno ancora lo poteva sospettare. L’impresario pesarese Eustachio Bambini doveva essere scalpitante da ore come un gatto scozzonato: la precedente mise en scène parigina del celebre intermezzo composto dal compianto Giovanni Battista Pergolesi aveva ricevuto un’accoglienza tiepida. Chissà ora! Ma ormai il soprano Anna Tonelli e il basso Pietro Manelli erano pronti a cominciare. Di lì a pochi minuti il sipario si sarebbe aperto. Ecco che le balze si sfiorano mollemente, si palpano, amoreggiando, consumando un dolce amplesso di velluto sotto lo sguardo indiscreto dell’arlecchino, dedito ognora al più spietato commérage. Inizia la rappresentazione de La serva padrona all’Opéra Comique.[1]

Con un gusto arcadico per la raffigurazione dei sentimenti, un «gusto moderno» (pre-galante lo avrebbero definito successivamente), la musica di Pergolesi illumina con precisa verve espressiva ogni sfumatura psicologica dei personaggi.

Il plot ruota attorno agli stizzosi bisticci e le schermaglie amorose fra una astuta servetta, slacciata nel contegno e spettinata nel cuore, ed il suo padrone, un borghese un tantino agée (ma più probabilmente un aristocratico, dato che a un tratto uscendo di casa chiede la spada, oggetto che contrassegna il rango). Serpina[2] (soprano), Uberto (basso) e Vespone (mimo) sono protagonisti di scene che si susseguono amabilmente come in un raffinato diorama, enfatizzate da grumi timbrico-gestuali di sicuro effetto sul pubblico. Aveva evidentemente ragione André Gretry quando salomonicamente sentenziò: «Pergolesi nacque e la verità fu conosciuta».

La serva padrona parigina fu un tale successo che, senza neppure avere la pretesa di farlo, con la sua incantevole freschezza, deliziosa naturalezza e contegnosa semplicità sfidò l’impronta ormai essiccata della troppo ampollosa tragédie lyrique, che occhieggiava ancora a Lully e che per molti intellettuali d’Oltralpe era divenuto un genere sbiadito: le cantilene italiane erano altresì ritenute meilleur que le nôtre […] par le gout de l’execution.

C’era poco da fare, l’intermezzo confezionato da Gennarantonio Federico[3] per forza di cose era destinato a essere il pomo della discordia della situazione, all’interno di un dibattito culturale decisamente molto più ampio. Era entrato in crisi il gusto musicale e per la Francia di Luigi XV era ormai giunto irrimediabilmente il momento di vivere una filosofeggiante ‘guerra civile’: tutti i letterati, i pubblicisti, gli intellettuali e i musicisti presero parte a una guerre des coins, non senza una pepata dose di accaloramento emotivo, combattendo in teatro e nei salotti a suon di sagaci epigrammi e satire pungenti.

Era iniziata la cosiddetta querelle des bouffons. Le fazioni in contesa erano due, capeggiate rispettivamente dal re e dalla regina. «Chi non è con me è contro di me» fu detto una volta. Al coin du roi aderirono i ‘conservatori’, cioè i sostenitori della musica francese che vedevano in Jean-Philippe Rameau il loro campione; al coin de la reine aderirono gli ‘italianisti’, fra le cui schiere  militavano Denis Diderot e Jean-Jacques Rousseau. Quest’ultimo nel 1753 diede alle stampe le Lettre sur la musique française, cosa che non mancò di indignare Jacques Cazotte e l’abate Claude de Fuzée Voisenon i quali diedero subito voce al loro risentimento con corrivo inchiostro e penne affilatissime. D’altro canto non si attese neppure un anno prima di poter leggere le Observations sur notre instinct pour la musique et sur son principe del grande Rameau. Nelle sue Lettre Rousseau con gran sprezzatura di scanzonata pennellessa aveva offerto un affresco della situazione musicale contemporanea, elogiando l’harmonie de la Musique Italienne e venendo quindi in parere che la lingua francese fosse essenzialmente inadatta alla musica.[4] Nel frattempo La serva padrona era diventato l’intermezzo musicale più famoso al mondo; venne peraltro tradotto da Pierre Baurans con il titolo La servante maitresse e rappresentata all’Opéra Comique il 14 agosto 1752, cui seguirono 190 repliche consecutive.

Le dispute accademiche che videro coinvolto l’intermezzo pergolesiano si sopirono poi effettivamente con la morte di Rameau nel 1764, eppure gli animi erano ancora caldi se è vero che bastarono giusto dieci anni per rilanciare nuovamente la polemica.

Sì, perché il 2 agosto 1774 (esattamente ventidue anni dopo la fortunata rappresentazione parigina de La serva padrona) all’Opéra vide la luce Orphée et Euridice di Christoph Willibald Gluck, la versione francese dell’opera (massonica) Orfeo ed Euridice, rappresentata a Vienna nel 1762.[5] Dalle colonne del Mercure de France Gluck aveva ripreso vecchie argomentazioni sul primato della musica francese per avvalorare alcune sue scelte drammaturgiche e musicali. Questo bastò per riaccendere le dispute. Numerosi intellettuali contrapposero alla riforma del melodramma propugnata dal compositore boemo lo stile del pugliese Niccolò Piccinni (massone affiliato alla Loge des Neuf Sœurs), operista nel quale identificavano l’emblema della naturalezza e dell’idea melodica felice e spontanea. La ‘guerra civile’ era quindi già ricominciata: «Due partiti erano sorti. Il nome di Gluck, il nome di Piccinni erano le grida d’unione. Il campo della guerra era il teatro dell’Opera». Il partito dei gluckisti era spalleggiato dall’abate Arnaud, quello dei piccinnisti da Jean-François Marmontel. Eppure, nonostante questa rinnovata tenzone, il tutto si esaurì piuttosto rapidamente, in sostanza nell’ambito di un dibattito accademico.

Ma della Serva padrona si tornerà a sentir parlare ben presto. Nel 1781, durante il suo servizio nella fredda e lontana Russia, il tarantino Giovanni Paisiello (anch’egli massone) musicò nuovamente il libretto di Federico, questa volta ampliandolo. Per quale motivo riutilizzare un libretto così famoso? Fu per la momentanea mancanza di un librettista collaboratore oppure per la drastica contrazione della durata degli spettacoli imposta dalla zarina Caterina II (la quale a teatro si annoiava presto)? Potrebbe essere, ma tutto ciò non giustificherebbe pienamente una scelta di tal sorta. Più probabilmente il compositore tarantino, «colui che rabbellì di elette forme la music’arte e ne fe’ lieto il mondo», è come se avesse voluto lanciare sfrontatamente una sfida al suo illustre predecessore e simbolicamente evidenziare un cambio di rotta generazionale. Una testimonianza aneddotica registrerebbe peraltro un giudizio poco lusinghiero di Paisiello nei confronti di Pergolesi: «se non fosse morto giovane non sarebbe diventato famoso». Ma questa è un’altra storia.

di Attilio Cantore

 

[1] Su libretto di Gennarantonio Federico e con musiche di Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona venne rappresentata per la prima volta il 5 settembre 1733 al Teatro di San Bartolomeo di Napoli tra gli atti del Prigionier superbo dello stesso Pergolesi, un vecchio dramma rielaborato, La fede tradita e vendicata, scritto da Francesco Silvani e messo in scena nel 1704 a Venezia con musiche di Francesco Gasparini.
[2] Nel repertorio buffo settecentesco il suffisso -ina (come la Lesbina de Il filosofo di campagna; la Despina del Così fan tutte; la Dorina de Il marito disperato) è certamente molto più frequente dei suffissi -etta (la Serpetta de La finta giardiniera), -illa (la Serpilla de Il regno delle Amazzoni) o -ella (la Chiarella de L’osteria di Marechiaro).
[3] Esponente della classe forense napoletana, Gennarantonio Federico instaurò con Pergolesi un sodalizio artistico:  prima de La serva padrona, aveva scritto il libretto de Lo frate ‘nnamorato (Teatro dei Fiorentini, 1732) e successivamente quello de Il Flaminio (Teatro Nuovo, 1735).
[4] «[…] mais tout le monde observa dès les premieres mesures de l’air Italien, que son visage & ses yeux s’adoucissoient; il étoit enchanté, il prêtoit son ame aux impressions de la Musique, & quoiqu’il entendît peu la langue, les simples son lui causoient un ravissement sensible» e altrove «la cause des affets surprenans que produit l’harmonie de la Musique Italienne, quoique beaucoup moins chargée que la nôtre, qui en produit si peu». Infine «Convenons que l’harmonie de ce célebre Musicien est plus pure & moins renversée, que ses Basses sont plus naturelles & marchent plus rondement, que son chant est mieux suivi, que ses accompagnemens moins chargés naissent mieux du sujet & en fortent moins, que son récitatif est beaucoup moins maniéré, & par conséquent beaucoup meilleur que le nôtre; ce qui se confirme par le gout de l’execution».
[5] L’opera che riformò il teatro musicale venne concepita, e molto probabilmente anche scritta, a strettissimo contatto coi circoli muratorî. L’Orfeo ed Euridice fu dunque il risultato degli sforzi congiunti di un librettista (Calzabigi) e di un musicista (Gluck) massoni, alle dipendenze di un Generalspektakeldirektor (il conte genovese Giacomo Durazzo) massone e protetti da un cancelliere imperiale (il conte Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg) massone, il tutto in occasione dei festeggiamenti per l’onomastico di un imperatore (Francesco I Stefano) massone.

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